domenica 27 marzo 2016

Gente di Dublino - "The dead" di James Joyce





 
L'aria della stanza gli gelò le spalle. Si allungò
cautamente sotto le lenzuola stendendosi accanto alla
moglie. A uno a uno, stavano tutti diventando ombre.
Meglio entrare in quell'altro mondo con audacia,
nell'intensa gloria di una passione, che languire e
appassire tristemente con gli anni. Pensò a come colei che
gli giaceva accanto aveva custodito nel cuore per tanti
anni l'immagine degli occhi dell'innamorato, quando le
aveva detto che non desiderava vivere.
Gli occhi di Gabriel si riempirono di lacrime generose.
Non aveva mai provato niente di simile per nessuna
donna, ma sapeva che un sentimento come quello doveva
essere amore. Gli occhi gli si riempirono ancora più di
lacrime e nella parziale oscurità immaginò di vedere la
figura di un giovane in piedi sotto un albero gocciolante.
Altre figure erano vicine. La sua anima si era accostata a
quella regione dove dimorano le vaste schiere dei morti.
Era cosciente, pure non riuscendo a percepirla, della loro
esistenza capricciosa e guizzante. La sua identità svaniva
in un mondo grigio e inafferrabile: il mondo solido
stesso, che quei morti avevano eretto un tempo e in cui
avevano vissuto, si dissolveva e dileguava.
Pochi colpetti leggeri sul vetro lo fecero voltare verso la
finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Guardò
assonnato i fiocchi, argentei e scuri, che cadevano
obliquamente contro la luce del lampione. Era venuto il
momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i
giornali avevano ragione: c'era neve in tutta l'Irlanda.
Cadeva dovunque sulla scura pianura centrale, sulle
colline senza alberi, cadeva dolcemente sulla palude di
Allen e, più a occidente, cadeva dolcemente nelle scure
onde ribelli dello Shannon. Cadeva anche dovunque nel
cimitero isolato sulla collina dove Michael Furey era
sepolto. Si posava in grossi mucchi sulle croci storte e

sulle lapidi, sulle lance del cancelletto, sugli sterili spini.
La sua anima si abbandonò lentamente mentre udiva la
neve cadere lieve nell'universo e lieve cadere, come la
discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.
 

 

lunedì 11 novembre 2013

venerdì 1 giugno 2012

60



ERWARTUNG


                            
 Dramma musicale di A. SCHÖENBERG (op. 17) 


Realizzazione di

FRANCESCO MARTINEZ  E  VALENTINA PIANCA

Interpreti:

SABINA SCHWARZ - MAURIZIO LAURENTI - ANNA ODESSA

Trucco e costumi di Valentina Pianca. 


Ai margini di un bosco, sotto il chiaro di luna, in un’atmosfera d’angoscia, una donna avanza esitante, si accinge ad attraversare il bosco per raggiungere l’amante. L’ansia e la paura crescono mentre s’inoltra cautamente nell’oscurità profonda, tra folti alberi, attraverso una natura piena di fantasmi e di allucinazioni. Giunge in uno spiazzo ove inciampa nel corpo dell’amante ucciso (forse da lei stessa) steso davanti alla casa della rivale. A questo punto è ossessionata dalla visione continua delle immagini dei due amanti infedeli; urla terrorizzata, si china su di lui e lo bacia, lo invoca e rievoca il tempo felice trascorso con lui. Sopraggiunge l’alba improvvisa ma in lei permane il buio della notte lunare ove essa si addentra disfatta, conscia della sua vana ricerca, mentre il ricordo del tempo passato si dissolve lentamente sottraendosi alla sua memoria.

L’ " erwartung " non e’ terminata, " ich suchte…. " " cercavo…. "






















Il carattere del soggetto si potrebbe far rientrare nel genere onirico anche perché, come nel sogno, la materia è espressa allo stato incandescente di urlo musicale, di trafittura, di spasimo; ricostruzione a rovescio, per demolizione degli schemi tradizionali, e al tempo stesso, insistito come nei sogni, finisce con l’accavallare e alternare il reale con l’immaginario, tanto da confonderli e riproporceli al limite del pensabile.

L’ambientazione scenica è fissa: un bosco e il chiuso giardino del ricordo.I personaggi sono posti "inter pares" con le zone cromatiche dei fondi, della luna nel cielo, dei rami degli alberi; dal punto di vista psicologico al contrario essi sono grumi di concentrazione di sentimenti conflittuali.

Nell’interpretazione visiva così come è stata proposta nel lavoro, ogni fotogramma vale di per se nell’autosufficienza di momento lirico necessario al tutto, e nello stesso tempo, dipende dall’insieme:dal fotogramma precedente quello conseguente e viceversa, come nella musica dall’urlo nasce il mormorio e da questo nuovamente il grido.

©1970 Francesco Martinez
















sabato 18 dicembre 2010

MY WAY

And now, the end is near;
And so I face the final curtain.
My friend, I'll say it clear,
I'll state my case, of which I'm certain.

I've lived a life that's full.
I've traveled each and ev'ry highway;
But more, much more than this,
I did it my way.

Regrets, I've had a few;
But then again, too few to mention.
I did what I had to do
And saw it through without exemption.

I planned each charted course;
Each careful step along the byway,
But more, much more than this,
I did it my way.

Yes, there were times, I'm sure you knew
When I bit off more than I could chew.
But through it all, when there was doubt,
I ate it up and spit it out.
I faced it all and I stood tall;
And did it my way.

I've loved, I've laughed and cried.
I've had my fill; my share of 'boozing'.
And now, as tears subside,
I find it all so amusing.

To think I did all that;
And may I say - not in a shy way,
"No, oh no not me,
I did it my way".

For what is a man, what has he got?
If not himself, then he has naught.
To say the things he truly feels;
And not the words of one who kneels.
The record shows I took the blows -
And did it my way!

Frank Sinatra







A Modo Mio Ed ora, vicina è la fine ed io fronteggio l'ultimo sipario amico mio, lo dirò chiaramente chiarirò la mia situazione, per la quale non nutro alcun dubbio Ho vissuto una vita piena Ho percorso ciascuna e tutte le strade e in più, molto di più Lo feci a modo mio Rimpianti, ne ho avuti pochi e d'altra parte son troppo pochi per raccontarli Feci quello che dovevo fare e senza nessuna esclusione pianificai ogni percorso tracciato ogni passo prudente lungo la scorciatoia e in più, molto di più Lo feci a modo mio Sì, ci furono delle volte, sono sicuro che tu hai saputo Che morsi più di quello che avrei potuto masticare ma nonostante tutto, quando ci fu un dubbio lo mangiai e lo sputai fronteggiai tutto ciò e lo feci a modo mio Ho amato, ho riso e pianto. ho avuto le mie soddisfazioni e la mia parte di sconfitte ed ora che scendono le lacrime trovo tutto così divertente pensare di aver fatto tutto ciò e poter dire - non timidamente "No, oh no, non io Io lo feci a modo mio" Perché cos'è un uomo, cosa ha ottenuto? se non se stesso, allora non ha nulla Dire le cose che sente veramente e non le parole di un uomo che si inginocchia Il passato mostra che presi i miei colpi e che lo feci a modo mio! sì, fu a modo mio!




......Paul Anka, che si trovava in quel periodo in Francia, ascoltò Comme d'habitude alla radio. Colpito dal brano, pensò ad un adattamento in inglese. Dopo essersi recato a Parigi per trattare l'acquisto dei diritti, compose i versi e sottopose la canzone, intitolata ora My Way (A modo mio), a Frank Sinatra. La versione inglese non è un adattamento, ma un testo a sé stante, che non ha nulla a che vedere con la versione originale: è la storia di un uomo, forse vicino alla morte, che traccia un bilancio della sua vita e non ha molti rimorsi poiché ha sempre vissuto a modo suo. Il tema sembra calzare a pennello per Sinatra, ma questi non è convinto del brano. A convincerlo penserà sua figlia Nancy. Alla quale piacque il testo che, secondo lei era appropriato per il padre che incarnava il mito americano del self-made man. A parte l'indiscutibile valore della melodia, il crescendo ad effetto, l'emozione assoluta trasmessa dalla voce che s'impenna sulle ultime due parole, appunto "...my way", la chiave del successo di questo brano negli Stati Uniti e poi, di ritorno, in tutto il pianeta, sta appunto nell'indovinata apologia dell'american way of life, in cui milioni di ascoltatori hanno voluto rispecchiarsi. Paul Anka incise la propria personale versione nel 1969. Ma la canzone oltre al successo ottenuto dalla versione inglese, fu tradotta anche in moltissime lingue.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera


domenica 11 luglio 2010

-Wystan Hugh Auden

Fermate tutti gli orologi isolate il telefono fate tacere il cane con un osso succulento. Chiudete i pianoforti e tra un rullio smorzato, portate fuori il feretro. Si accostino i dolenti.
Incrocino aeroplani, lamentosi, lassù e scrivano sul cielo il messaggio:
Lui è morto.
Allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni. I vigili si mettanoguanti di tela nera.
Lui era il mio nord, il mio sud, il mio est e ovest, la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica, il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto.
Pensavo che l'amore fosse eterno e avevo torto.
Non servono più le stelle, spegnetele anche tutte, imballate la luna, smontate pure il sole, svuotatemi l'oceano e sradicate il bosco perché ormai più nulla può giovare.






Stop all the clocks, cut off the telephone, Prevent he dog from barking with a juicy bone, Silence the pianos and with muffled drumBring out the coffin, let the mourners come.
Let aeroplanes circle moaning overhead Scribbling on the sky the message:
He Is Dead.
Put crêpe bows round the white necks of the public doves, Let the traffic policemen wear black cotton gloves.
He was my North, my South, my East and West, My working week and my Sunday rest, My noon, my midnight, my talk, my song;
I thought that love would last for ever: I was wrong.
The stars are not wanted now: put out every one; Pack up the moon and dismantle the sun; Pour away the ocean and sweep up the wood; For nothing now can ever come to any good.